In questo mese, il teatro in Puglia non può non ricordare, e dal 18 al 27 nel circuito del TPP tra le iniziative previste andrà in scena in matinée per le scuole e in serale per il pubblico il progetto di Antonella Carone, Tony Marzolla, Loris Leoci con la drammaturgia di Damiano Nirchio (Tanto vale divertirsi) previsto:
-giovedì 18 a Bari/Teatro Piccinni – per la stagione del Comune di Bari-Assessorato alla Cultura (alle 10 per le scuole e alle 19.30).
-sabato 20 al Teatro Comunale di Mesagne – per la stagione del Comune di Mesagne (alle 10.00 per le scuole e alle 21)
-sabato 27 a Taranto/Teatro Fusco per la stagione del Comune di Taranto (alle 10.30 per le scuole e alle 21)
In “Tanto vale divertirsi” Antonella Carone, Tony Marzolla e Loris Leoci proseguono il lavoro di recupero e di esplorazione dei meccanismi della risata cominciato già con il precedente “Alla moda del Varietà”, ma questa volta si spingono oltre, muovendosi su un terreno delicatissimo, cercando di “conciliare l’inconciliabile, il divertimento e il lutto”.
Lo fanno muovendosi in una scena elegante ed essenziale che rappresenta un teatro rovesciato dove il sipario (drammaturgico) è il fondale e da quel “fondo” incombe l’arrivo di uno strano “pubblico”, descritto come una creatura inafferrabile, mostruosa, astratta. E, in attesa che questo arrivi, per non soccombere all’horror vacui, i tre personaggi ripasseranno alcune scene di un “Amleto” in chiave comica che di lì a poco andranno a rappresentare, in un progredire che da “semplice” distopia si rivelerà in tutta la sua crudele storicità, mentre al riso spetterà il compito di “rovesciare la scansione del lutto”.
Punto di partenza e fonte d’ispirazione per “Tanto vale divertirsi” è stato il campo di transito di Westerbork in Olanda, dove tra il 1942 e il 1943 si ritrovarono molti nomi di primo piano della scena europea: Camilla Spira, Max Ehrlich, Kurt Gerron (reduce dal grande successo de “L’Angelo Azzurro” pochi anni prima), ma anche il pianista Willy Rosen o il duo swing “Jonny e Jones”, per citarne alcuni.
A Westerbork, tappa intermedia verso lo sterminio, c’era anche un teatro dove questi artisti continuarono ad esibirsi per allietare non solo il pubblico degli internati, ma soprattutto i loro carcerieri e aguzzini accomodati nelle prime file. Espulsi dai set e dai palcoscenici sui quali avevano primeggiato, le loro performance si replicavano in situazioni sempre più dure: i campi di transito, poi i ghetti e i campi di sterminio.
Westerbork, ma anche Theresienstadt, Dachau, Buchenwald, dunque. Sono nomi di località che tutti tristemente conosciamo. Ne conosciamo la natura e le criminali finalità per le quali furono concepite. Quello su cui meno ci si sofferma sono le modalità con cui i detenuti cercavano di sopravvivere a quel dolore: resilienza, per usare una parola fin troppo abusata, che finì per coincidere in alcuni casi con l’espressione artistica.
Se si pensa, inoltre, che il gotha del teatro umoristico mitteleuropeo, agli albori della seconda guerra mondiale, era costituito prevalentemente da attori di origine ebraica, acclamatissimi dal grande pubblico, allora non stupisce il fatto che moltissime furono le manifestazioni legate allo spettacolo comico-leggero che fiorirono in quei luoghi. Da questi attori comici ci si aspettava che facessero ridere, che sciorinassero tutto il loro migliore repertorio: serviva ai gerarchi che godevano di spettacoli con il meglio che la scena teatrale avesse conosciuto fino ad allora; serviva agli artisti stessi, che così potevano ambire ad una speciale - ma momentanea – immunità.
In mezzo agli orrori della morte e alla barbarie umana, l’Arte riuscì dunque a farsi spazio per aiutare a sopravvivere, “per collegare il tempo dei morti con quello di chi verrà” o, semplicemente, per avere una chance in più. Un’ultima ancora.
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