sabato 28 marzo 2009

La supplenza. -di Pino De Luca-

In una scuola è la parola e la funzione più aborrita dal/dalla “docente bravo/a”. Addirittura il “grande professore” la ritiene un minus professionale oltre che personale. L’ufficio addetto alle sostituzioni ritiene quest’arma terribile un modo per consumare piccole vendette e miserabili rivincite. In generale si assegna questo ruolo in questa maniera: si individua un decerebrato privo di autonoma capacità di pensiero ma efficace nella applicazione di quattro o cinque semplici regole, gli si assegna lo scettro del comando, e si è tranquilli che eseguirà perfettamente il compito.


Per ragioni che è troppo complicato e di nessun interesse spiegare, ho molte ore a “disposizione”, non sono un “grande professore”, e, di norma, sono molto poco accomodante con il “potere” quindi la “supplenza” mi è fornita con notevole costanza. Il fatto è che a me la supplenza piace. È una delle rare occasioni che ho per imparare qualcosa in una scuola asfittica, che tende ad assumere cento, mille ruoli abdicando tranquillamente a quello istituzionale. Una scuola che è “servizio sociale”, “centro di spesa”, luogo di incontro, aggiungete pure mille altre cose purché si porti all’ultimo posto la funzione per cui è nata: formare e informare.


Anzi se formazione (che magari la fanno le imprese) e informazione (magari fatta dalla televisione) fosse eliminata molti sarebbero più felici. Ne guadagnerebbero efficienza, risparmio e potremmo dare una bella botta a questo “culturame” che sa di vecchio.


In questo pensiero egemonico temo di essere un po’ troppo demodée. Il mio modo di interagire è determinato da un paradigma di regole che, mi sembra, non molto condiviso ma che nessuno, finora, ha avuto il coraggio di dirmi che è sbagliato.


In questo paradigma sono previste le seguenti regole: fare l’appello nella classe, considerato che non ci si conosce, dare del Lei a persone con le quali non c’è la confidenza che si ha con i propri allievi, conversare con loro facendo precedere la pronuncia del loro nome con l’appellativo Signor o Signorina, pretendendo che in classe non si porti il cappello, non si usino lettori musicali e similari, che si sia assisi in forma urbana e si abbia collettivo rispetto.


In una abitudinaria e consolidata concezione per la quale l’ora di “supplenza” è sostanzialmente dedicata ad auto organizzazione dichiarata che degenera rapidamente in puro fancazzismo, l’incipit della mia presenza solleva dapprima una certa ilarità e battute salaci, poi, visto che  ho un carattere che non può definirsi né docile né remissivo e una stazza di tutto rispetto, si vira verso l’assetto richiesto, magari con una certa riluttanza.


Capita quindi che, nel reciproco rispetto delle posizioni e con l’ordine richiesto, un dialogo prenda forma. In questi dialoghi, raramente di carattere disciplinare, mi capita di imparare sempre delle cose nuove, di conoscere aspetti del mondo giovanile che tanto cambia e tanto rimanendo simile a sé stesso.


Una cosa che spesso mi capita di osservare è che nessuno racconta ai giovani di un loro diritto, quel diritto che si ha una volta sola nella vita ed è intrinseco allo status di studente : il diritto di sbagliare, di fare delle sciocchezze e di essere per tale ragione redarguiti.


Gli studenti del mio campione pensano che bisogna andare bene a scuola perché è un dovere, a scelta verso chi, ma un dovere. Nessuno ha ma detto loro che hanno anche diritto ad essere, come dire, meno brillanti e che la scuola serve soprattutto per i meno capaci e i meno predisposti. Io trovo che sarebbe noiosissimo insegnare solo ad allievi intelligenti, studiosi e interessati.


L’altra cosa che trovo scorretta da parte dell’istituzione scolastica è quella di privare gli allievi di una corretta informazione circa l’utilità della scuola. Si usano, usiamo magari inconsapevolmente e senza malizia, spesso delle puerili giustificazioni: la scuola ti garantisce un futuro, ti fa progredire, ti prepara alla vita, e altre sciocchezze del genere. Del tutto evidente che dei giovani di medie capacità intellettive impiegano poco a capire che sono dabbenaggini e fanfaluche per gli stolti.


Quanti chimici conosciamo all’apice della fama e della ricchezza? E quanti matematici? E quanti fisici? E quanti letterati? Meglio esser velina, tronista, calciatore o trafficante di stupefacenti,  magari il politico o il “bravo presentatore”, oppure il giornalista dei potenti. Per questi “mestieri” non occorre la conoscenza ampia, bastano le “conoscenze” giuste, un corpo con pochi peli sulla pelle e molti sullo stomaco.


Si sorprendono i ragazzi quando dalla discussione emerge la vera ragione per la quale bisogna studiare e farlo bene e profondamente. Si sorprendono quando capiscono che la conoscenza ci rende consapevoli e fruitori di un diritto. Il diritto di dire, a chiunque,: “io non sono d’accordo”, “io ho un mio pensiero e se anche tu ne hai uno sono pronto a discutere”.


Mi piace fare le “supplenze” mi insegna tante cose. Non sarò mai un “grande professore” capace di progettare grandi interventi per insegnare alle giovani generazioni l’ipocrisia dei valori dichiarati e la furbizia del loro segreto tradimento. Non so nulla di fannulloni e di raccomandati, non sono mai stato né l’uno né l’altro. Non so nulla di astuzie e certificazioni false, di sotterfugi e piccole miserie umane, non ne posso parlare in quanto privo di questa conoscenza. So solo una cosa: la supplenza è un privilegio, mi insegnano tante cose in un’ora di lavoro.


Grazie a tutte le ragazze e i ragazzi per la loro disponibilità, e, soprattutto ai caporali di giornata che fanno uno sporco lavoro, ma necessario.


pino_de_luca@alice.it


P.S. Ovvio che i “miei” ragazzi sono sempre i migliori di tutti, ma con loro c’è tanto tempo nel quale possiamo imparare insieme.


 

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