Egregio Direttore, Le esprimo il mio plauso per aver promosso sul Suo giornale un interessante dibattito su : “Cultura, economia e uno sviluppo che ancora non c’è”.
In verità, inizialmente, ho ritenuto che, data l’importanza del tema trattato, al dibattito avrebbero preso parte, oltre ad appartenenti della cosiddetta società civile, anche personaggi pubblici investiti da incarichi istituzionali e quindi detentori di poteri decisionali, per far conoscere al popolo amministrato le loro idee progettuali mirate a far conseguire alla nostra città una migliore qualità di vita.
Leggendo in questi giorni, invece, gli interventi apparsi sul giornale, ho avuto modo di constatare che, finora, si sono alternati soltanto dei rispettabili cittadini (avvocati, professori, sociologi, ambientalisti, periti industriali, ecc.), che hanno manifestato il proprio pensiero in ordine al tema del dibattito, ripetendo o le stesse cose, trite e ritrite, relative alle varie situazioni più o meno deleterie del passato che ha vissuto la nostra città e che tutti ormai conoscono, o, dando dimostrazione delle proprie capacità professionali, impartendo delle lezioni ora di sociologia, ora di diritto, ecc.
Inoltre, tale circostanza, per taluni, ha costituito una vetrina per autocelebrarsi, comunicando ai lettori, evidentemente ritenendoli interessati, i propri curriculum-vitae con i quali si è voluto pubblicizzare di aver conseguito questo o quell’altro titolo di studio con il massimo dei voti o con lode o con bacio accademico o con abbraccio, pure quello accademico, ecc.
Per quanto, riguarda, poi, il tema del dibattito, ognuno ha indicato il proprio punto di vista, affermando : “senza industria non c’è futuro”, oppure, “non c’è futuro senza industria”, oppure, “ci vuole più cultura”, oppure, “non basta la sola cultura”, oppure, “la cultura può dare occupazione?”.
L’obiettivo del dibattito in argomento, si legge sempre sul giornale, è quello di capire se è più importante “prima filosofare e quindi vivere, o, prima vivere e poi filosofare?”. Posto davanti a tale interrogativo, non posso non rammentare Aristotele, quando, nella sua opera “Metafisica”, ci ricorda che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari. E il mangiare, come sappiamo, è uno dei bisogni primari. Un antico adagio, infatti, dice “che non si può pensare con la pancia vuota”. Per averne conferma, basta recarsi all’ingresso dell’ufficio di collocamento di Brindisi, aspettare un po’ e vedere l’enorme affluenza di disoccupati.
Inoltre, apprendo, sempre dalla stampa, che di recente il sindaco Mennitti e il presidente della Provincia Errico, hanno parlato dell’importanza strategica di una “città del sapere” (forse, vorrebbe significare che tale dovrebbe diventare Brindisi? non è dato capire in che modo).
Mentre, il nuovo rettore dell’Università del Salento, Laforgia, ha affermato con estrema chiarezza che a Brindisi “è mancata in passato una classe dirigente sufficientemente preparata e colta da contrapporre altre idee a quelle che venivano da una certa imprenditoria di Stato”.
Ora, se Brindisi divenisse una “città del sapere”, io, personalmente, ne sarei entusiasta,
perché ciò equivarrebbe a dire che i brindisini avrebbero finalmente contezza della realtà in cui vivono e la consapevolezza di essere capaci di valutare l’operato dei propri amministratori.
E, questa, sarebbe una cosa buona, dal momento che anche Kant, il grande filosofo dell’Illuminismo, affermava che l’autoemancipazione dell’uomo può avvenire solo per mezzo della conoscenza, del sapere, così come affermava anche Pestalozzi, il quale riteneva che la povertà si combatte con la conoscenza.
Ritengo anche doveroso, spendere alcune parole di plauso al rettore Laforgia (che non mi pare sia brindisino) per la chiarezza con la quale ha affermato che a Brindisi “è mancata in PASSATO una classe dirigente sufficientemente preparata e colta (…)”. Con il dovuto rispetto, mi permetto di suggerire al rettore La forgia di assistere, OGGI, ad una qualsiasi assise del Consiglio Comunale di Brindisi. Si renderebbe conto, forse, che per quanto riguarda le peculiari qualità dei nostri amministratori, il passato non è passato, anzi.
Assistendo, infatti, ad una qualsiasi riunione del Consiglio comunale di Brindisi, si ha la possibilità di constatare sul campo una teoria del filosofo Noventa : la teoria del “cappello”. Egli, infatti, negli anni ’40, affermava che in Italia (e Brindisi è un vero microcosmo del Paese) “per candidarsi ad un posto, basta mettere un cappello sulla sedia ed aspettare.
La società ufficiale conserverà i cappelli al loro posto e li avvicinerà sempre più alle poltrone direzionali, così le nostre teste seguiranno poco a poco i nostri cappelli”. Come dire, per fare l’amministratore, per esempio, cito una città a caso, Brindisi, basta poggiare il “cappello” sulla sedia di un partito qualsiasi o di un’associazione politica o di un qualsiasi sindacato o essere il cavalier servente di un politico ed aspettare il proprio turno.
Al proprietario del cappello non verrà richiesto alcun requisito, tranne quello di essere una persona priva di autonomia mentale. Alla legge di Flaiano : “Il cretino, oggi, sa”, mi verrebbe da aggiungere un comma integrativo : “L’ignorante, oggi, sa” che, possedendo un “cappello”, può avere buone possibilità di vedersi assegnato un incarico pubblico.
Comprendo che il rettore La forgia debba avere parole di elogio per gli attuali amministratori brindisini, dal momento che questi hanno favorito, meritoriamente, bisogna dirlo, la nascita a Brindisi di alcune facoltà universitarie, quali sedi distaccate dell’Università del Salento. Però, sono assalito da un dubbio iperbolico di cartesiana memoria : queste facoltà universitarie istituite nella nostra città sono scaturite da serie valutazioni circa la tipologia del nostro territorio e, quindi, mirate a favorire uno sbocco lavorativo ai nostri giovani, oppure, si è trattato, per motivi squisitamente utilitaristici, di istituire, comunque, delle facoltà a Brindisi, con lo scopo di creare ulteriori opportunità di incarichi a favore, per esempio, di assistenti, ancora precari, o, per offrire altri incarichi a chi è già titolare di cattedra negli Atenei di Lecce o di Bari?
A questo punto, mi concedo la licenza di dare un modesto suggerimento a coloro che amministrano la nostra città, di qualsiasi appartenenza politica essi siano : approfondite, interrogando la vostra coscienza, il concetto : “La misura di sé” (capacità di misurare sé stesso). Comprendo che è alquanto difficile, perchè dichiarare i propri limiti è negativo. Ma, per dirla alla maniera aristotelica : “Chi conosce il suo limite non tema il destino”.
Potrebbe sembrare un paradosso, ma, per esempio, dichiarare il livello della propria “incompetenza”, significa voler affermare il concetto di “meritocrazia”. E questa incompetenza non la si misura in astratto, ma, nella prassi concreta. Si tratta, quindi, di una questione etica, per la quale è necessario operare una scelta, assumendosene la responsabilità.
Perché, dunque, non praticare la “misura di sé”? Sarebbe giusto ed anche assai opportuno, perché, come dice la filosofa Zambrano, vissuta in esilio politico per oltre quarant’anni, riprendendo Aristotele : “l’anima “misura”, perché è “come una mano“.
Come dire, ognuno di noi ha dentro di sé lo strumento per misurare le proprie capacità e i propri limiti. La qual cosa, ovviamente, è il netto contrario dell’autocelebrazione, tanto in voga in questa nostra epoca.
Bruno Storella
Brindisi, 8 novembre 2007.